Ana Mendieta è una delle donne più significative nel panorama artistico contemporaneo e una delle prime artiste latino-americane ad avere un ruolo centrale negli anni ’70.
Nata a L’Avana (Cuba) nel 1948, Ana Mendieta viene portata tredicenne, insieme alla sorella, negli Stati Uniti con l’operazione “Peter Pan”, un piano anticomunista che aveva l’obiettivo di far espatriare i minori cubani all’indomani della rivoluzione castrista. L’artista dirà: “Era come se fossi stata strappata dal ventre materno”. Questo sradicamento forzato e il continuo pellegrinaggio da un campo di rifugiati ad un orfanotrofio o presso famiglie adottive porterà ad Ana un forte senso di non-appartenenza e di identità divisa, presente in tutta la sua arte.
“Per me l’inizio della ricerca di un posto nel mondo e il tentativo di definire il mio essere prendono avvio proprio da quella esperienza”.
Studia presso l’Iowa State University dove decide nel 1972 di passare radicalmente dalla pittura alle performances.
La poetica artistica di Mendieta è una sintesi tra il movimento della Body Art e la Land Art, dando primaria importanza alla visione del proprio corpo umano immerso in una natura primordiale. La sua è un’arte viscerale che abbraccia gli ideali del femminismo. La figura della donna è intrisa di magica ritualità ed è concepita come un ritorno del corpo d’artista alla madre terra e all’esotico cubano. Utilizzando diversi media (performance, disegno, scultura, fotografia e video), i suoi lavori fanno costante riferimento a simboli e ad aspetti di pratiche rituali di culture indigene – africane, europee e delle Americhe – e ai riti sacrificali propri della “santeria cubana”.
Verso il 1973 Mendieta indaga i temi della violenza sulle donne e dello slittamento di identità, esplorando le potenzialità del proprio corpo e della sua deformazione, ad esempio schiacciandolo contro lastre di vetro.
Il sangue è un altro elemento che diventa presto centrale nei suoi lavori. Emblematica è la sua opera Untitled (Rape Performance) (1973), in cui l’artista si fa trovare da professori e studenti nel proprio appartamento, nella penombra, nuda, ricurva sul tavolo, legata e insanguinata, mentre inscena brutalmente uno stupro. Questa azione rappresenta una critica dell’artista alla notizia dello stupro e dell’assassinio di una studentessa nel suo stesso campus universitario.
Nello stesso anno Ana Mendieta compie un viaggio in Messico e, ispirata dall’ambiente e dalle culture primordiali, inizia la serie delle “Siluetas” (dal 1973 al 1980), in cui compaiono i temi della sepoltura e della morte. Nel tempo documentarel’erosione della figuraL’artista stessa si definisce “Earth-body artist”.
“Io lavoro con la Terra , faccio sculture nel paesaggio, visto che non ho una madre/patria, sento il bisogno di avvicinare la terra e tornare al suo grembo”.
Le Siluetas sono create da terra, neve, ghiaccio, sassi, erba, foglie e fuoco, e riproducono una sagoma femminile, vicina spiritualmente a quella propria dell’artista: “Utilizzo la terra come tela e la mia anima come strumento”. Alcune di esse sono figure di sabbia che si realizzano attraverso la loro erosione, quando l’acqua dell’oceano scorre su di esse, svuotandole e lasciando disperdere il sangue o la tempera rossa che le riempie. Una delle Silueta più caratteristiche è Alma Silueta en fuego (1975), dove la sagoma è creata con il fuoco in un processo di purificazione-trasformazione-morte.
Dopo aver viaggiato dal 1980 più volte a Cuba, la sua madre patria, l’artista elaborò una nuova serie: le “Sculture Rupestri”, rappresentanti delle figure semi-astratte scavate nella roccia o veri e propri totem, come Totem Grave (1984-85), creato con polvere a sparo e tronchi d’albero.
Ana Mendieta muore prematuramente nel 1985 cadendo dal 35 esimo piano del suo appartamento a New York dove viveva con il marito, l’artista Carl Andre.
Un articolo di Daisy Triolo