Nata a Belgrado nel 1946, Marina Abramović è una delle artiste maggiormente significative e riconosciute a livello internazionale, protagonista indiscussa negli appuntamenti più prestigiosi come “Documenta” di Kassel e la Biennale di Venezia.
È stata una figura chiave della Body Art e una delle prime performer, tanto da autodefinirsi “Grandmother of performance art”, sancendo il suo posto di spicco tra pionieri di questa metodologia come Bruce Nauman, Vito Acconci, Chris Burden e Gina Pane.
Dopo aver studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado (1965-72), Abramović cominciò proprio agli inizi degli anni ’70 a dar vita alle sue febbricitanti performance, sperimentando i primi ambienti sonori e le video installazioni e contribuendo così con il suo lavoro a delineare alcuni punti fondamentali dell’arte contemporanea.
Nel 1976 si trasferì ad Amsterdam e iniziò la fertile collaborazione con l’artista tedesco Ulay, con il quale condivise intensamente vita e lavoro fino alla fine degli anni ’80. Considerati come un’unica entità, i due artisti diedero vita insieme a delle performance innovative e di grandissimo impatto nello scenario artistico, incentrate sul corpo e sulla stretta relazione delle loro azioni.
Un sodalizio artistico e amoroso che terminò con un altrettanto spettacolare ed emozionante performance (The Lovers) che li vide percorrere la muraglia cinese dai due estremi opposti, fino ad incontrarsi al centro e salutarsi. Da quegli anni in poi Marina Abramović si dedicò ad un’arte autobiografica passando dall’indagine del suo corpo all’epifania di oggetti presi dal naturale e ispirati alla cultura di popoli indigeni che lei definì di “transizione” e di “potere”.
Il suo è un lavoro sociale che indaga non l’autonomia dell’opera d’arte bensì quella dell’essere umano, che esplora il rapporto tra performer e pubblico. L’artista ha sempre creduto in un’arte che indaga le necessità della società. “L’arte senza etica è cosmetica”.
Nell’attività performativa utilizza il corpo come medium e materiale della propria ricerca artistica, sperimentando i limiti fisici e le possibilità mentali, arrivando anche ad azioni masochiste cui sottopone la propria carne e la propria sensibilità femminile di fronte un pubblico non più passivo, ma attivo, giudice e psicologicamente costretto a reagire.
Tra le sue opere maggiormente conosciute si può annoverare Rhythm 0 (Napoli 1974), dalla serie “Rhythms”, dove l’artista offrì il proprio corpo privo di volontà agli spettatori, i quali potevano usare su di lei i 72 oggetti appositamente collocati sul tavolo:
“Io sono l’oggetto”.
Iniziato con un approccio delicato, lo spettacolo diventò violento e incontrollato, fino al punto di mettere nelle mani dell’artista una pistola carica puntata su se stessa.
In Balkan Baroque l’artista si trova impegnata al lavaggio di 1.500 ossa di bue insanguinate, come un rito di simbolica purificazione e riflessione su un momento storico difficile dell’ex Jugoslavia. Presentata alla XLVII Biennale di Venezia (1997), le fece vincere il Leone D’oro.
Un articolo di Daisy Triolo
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