Edoarda Maino nasce a Milano nel 1930. Aderisce all’Avanguardia milanese con il diminutivo di Dada ed entra in contatto con gli artisti del gruppo Azimuth, tra i quali Piero Manzoni, con cui stringe una profonda amicizia. Il soprannome di Dadamaino deriva da un refuso di stampa di un catalogo, che diventa la firma personale dell’artista. Edoarda Maino partecipa a varie collettive in tutta Europa e tiene diverse personali (dagli anni ’60 in poi) l’ultima delle quali nel 2003.
L’influenza di Lucio Fontana si avverte sin dalle prime cerazioni del 1959, i cosiddetti Volumi: opere costituite da squarci ovoidali di varie dimensioni su tela, dove l’artista elimina simbolicamente la matericità dell’arte per ritornare a un’idea di purezza estetica.
Un’evoluzione dei primi lavori sono i Volumi a moduli sfalsati, modellati su superfici plastiche. Si tratta di semplici fogli di plastica, ricavati da teli per la doccia, che vengono fissati a più strati su due telai e forati con una fustella.
L’artista sceglie di realizzare lavori polimaterici, combinando materiali industriali come la plastica, il plexiglas e l’alluminio. Dal 1961 Dadamaino inizia a realizzare i suoi tipici Oggetti ottico dinamici, placche in alluminio suddivise in quadrati, assemblati in modo tale da creare nello spettatore l’illusione ottica del movimento.
I Componibili sono invece delle opere ottenute facendo scorrere su di un filo dei fogli di legno quadrangolari, dando vita a un’opera d’arte dinamica che porta con se infinite potenziali combinazioni. Verso la fine degli anni ’60 inizia l’indagine sul colore, una ricerca fondamentale sulle varianti cromatiche dello spettro solare, che culmina con la produzione dei Cromorilievi, dove i colori e gli elementi metallici si combinano per creare inaspettati giochi di luce.
Dopo il ’74 Dadamaio decide di tornare sui suoi passi, negando il colore e tornando al bianco totale e agli strumenti primi dell’arte. In questa fase della sua carriera artistica nasce il ciclo Inconscio razionale, dove la superficie monocroma è solcata da segni regolari, ma non programmati, dove “la mano corre e traccia senza premeditazione“.
Nel 1976 un evento storico richiama l’attenzione dell’artista, che diventa il punto focale di una serie di lavori. Si tratta della nota carneficina di tremila palestinesi, massacrati ferocemente dall’esercito libico. Il lavoro critico dell’artista, definito da Dadamaio stessa come “labile”, consiste in scarabocchi e segni tracciati sulla sabbia che ricreano lettera H, la consonante muta, simbolo dell’omertà e dell’effimero.
Ad una fase concettuale si fa risalire l’Alfabeto della mente, l’espressione silenziosa della sua ricerca. Qui i segni alfabetici compongono dei nuovi caratteri, delle vere e proprie lettere, che ricoprono in serie tutto lo spazio che l’artista intende utilizzare, su tela o su carta.
Negli anni ’80 Dadamaino si dedica al ciclo de I fatti della vita, una sorta di alfabeto della mente dove i segni si alternano a regolarità dall’effetto evocativo ed intimistico, e al ciclo delle Costellazioni, dove il colore crea segni che, in base alla distanza dalla tela, ricordano galassie e ammassi stellari. In questa indagine sul rapporto tra micro e macro cosmo, l’artista cerca di trovare una sua verità, “un senso al nonsenso” che governa il creato.
Il movimento delle cose è il ciclo che l’artista appronta alla fine degli anni ’80, per queste opere, su lunghi fogli trasparenti, dipinge con la china dei segni, che sembrano in movimento. La novità degli anni ’90 è relativa al modo di esporre l’opera, le tecniche restano le stesse, china su carta, tela o plastica, ma le opere non sono più poste sul telaio, vengono appese direttamente sulla parete a poca distanza l’una dall’altra per sottolinearne la trasparenza.