Svetlana Ostapovici è un’artista moldava nata nel 1967, trasferitasi in Italia nel 1999, dove ancora oggi vive e lavora. La sua ricerca utilizza in primo tempo l’arte del mosaico – amalgami di acrilico, tessere vitree, pittura ed elementi plastici – per poi concentrarsi sul suo medium prediletto: la fotografia.
L’opera di Svetlana Ostapovici ha la lucidità analitica della fotografia di stampo documentaristico, accompagnata da un sguardo indagatorio sul sociale e la psicologia collettiva. I suoi scatti immortalano contesti urbani e naturali in stato di emergenza, come complessi industriali e paesaggi distrutti da incendi, ma anche discariche e luoghi di riccolta di materiali riciclati.
Sono interessata al backstage della nostra esistenza quotidiana, i luoghi che raccolgono cio che noi abbiamo desiderato, vissuto, usato e gettato. Ogni cosa ha una teoria con un inizio ed una fine.
I due cicli di fotografie Metal/BV e Metal Recycling sono caratterizzati da una potenza espressiva che ricorda i capolavori del cinema italiano neo-realista, da “Roma città aperta” di Rossellini fino alla “Grande Guerra” di Monicelli. Le fotografie del ciclo Metal Recycling provocano uno shock percettivo e stimolano il confronto tra i concetti di bellezza e distruzione attraverso la giustapposizione delle grandi sculture del passato alle discariche a cielo aperto. Come in Metal Recicling n.18, dove il Pensatore di Rodin sebrerebbe guardare sconsolato la montagna di rifiuti industriali ai suoi piedi.
La statua è il monumento alla storia, mentre il rifiuto è il monumento della storia. Accostare questi due elementi, così simili e così diversi, mi fa riflettere sul valore che attribuiamo alle cose e sulla possibilità di cambiare la visione che abbiamo di esse.
Quella di Svetlana Ostapovici è sia un’opera d’arte completa dal punto di vista espressivo, stilistico e semantico, che una riflessione critica sulla trasformazione del paesaggio nell’era consumistica. Queste statue che emergono tra i rifiuti appaiono come una metafora della grande bellezza dimenticata, del dissolvimento e della voluttà del nulla. In questo mondo dai contorni post-apocalittici l’uomo rivela sè stesso attraverso sua assenza, mostrando le tracce della sua costante presenza.
Nella serie Factory la fotografa si riappropia del colore, un colore saturo e vivissimo che dona nuova vita a immagini di fabbriche in disuso, che assumono connotati surreali e psichedelici. Le vernici industriali fluorescenti sembrerebbero ribadire l’essenza artificiale e di questi enormi macchinari, un’orribile creazione umana agli antipodi dei concetti classici di natura e bellezza.